Il mercato dell’auto non deve fare i conti solo con le conseguenze della pandemia. A rallentare i volumi c’è anche la sempre più discussa crisi dei chip. Un vero terremoto per le Case auto, alle prese con una carenza di approvvigionamenti con pochi precedenti, che sta costringendo a ripensare numerosi processi per non ritrovarsi con le fabbriche ferme e i piazzali pieni di auto non finite.
Come è nato questo clamoroso collo di bottiglia? E come si può aggirare? Ma soprattutto, quando finirà tutto questo? Le domande sono tante e la situazione è ancora complicatissima. Proviamo a fare chiarezza.
Tutta parte dal lockdown
Tra le cause di quello che gli anglosassoni chiamano chip crunch c’è proprio la pandemia. E non solo per i riflessi sulla produzione, con la chiusura di alcuni stabilimenti a causa del lockdown. Nel 2020 le persone sono state costrette a restare a casa per contenere i rischi di contagio e come conseguenza hanno avviato l'acquisto in massa di dispositivi elettronici.
Computer per lo smart working e la didattica a distanza, ma anche consolle e altri oggetti di svago. Tutti accomunati dalla presenza di chip, elementi imprescindibili per il funzionamento di qualsiasi gingillo tecnologico. Una sorta di "effetto lievito", che i panificatori da lockdown hanno ben sperimentato nei supermercati, ma su scala globale.
Questo aumento della domanda registrato lo scorso anno non era stato previsto dalle aziende produttrici, che anzi, temevano che la domanda sarebbe calata. Alla fonte di tutto, quindi, c'è stato un riassestamento con un ridimensionamento dell'offerta, dovuto da una parte alla inevitabile chiusura di alcune fabbriche per i rischi sanitari e dall'altra da una scelta ponderata su previsioni di domanda sbagliate, proprio mentre la richiesta subiva un incremento. L'effetto è stato enorme.
I clienti preferiti
Il mondo dell’automobile ha subito le ripercussioni più evidenti della crisi dei chip. Altri settori, come quello dell’elettronica di consumo, hanno retto meglio il colpo. Perché?
Tutte le principali aziende produttrici (Intel a parte), spesso con sede in Asia, di fronte all’aumento della domanda dei produttori di dispositivi elettronici e alla contrazione delle richieste dei costruttori di auto a inizio pandemia, hanno preferito accontentare i primi a discapito dei secondi, che oltre a dover affrontare una generale riduzione delle quantità disponibili si sono trovati in una posizione di secondo piano rispetto ad altre realtà. Acuendo il problema.
Un marzo da dimenticare
Come se non bastasse, a gettare benzina sul fuoco ci sono stati due episodi solo apparentemente isolati che hanno avuto enormi ripercussioni su tutto il mondo dell’auto. Sono accaduti entrambi a marzo. A metà mese la Renesas Electronics ha dovuto fare i conti con un incendio che ha fermato la produzione. I danni sono stati ingenti e le linee sono tornate ad andare a pieno regime solo a fine giugno.
Il 23 marzo, a pochi giorni da quell'incendio, la portacontainer Ever Given si incaglia nel Canale di Suez bloccando il passaggio per una settimana e mandando in crisi una fetta importante del trasporto su nave mondiale. In tutto questo, le già scarse quantità di chip destinate al mondo dell’auto si riducono ancora o, comunque, subiscono ingenti ritardi, con un effetto a catena di proporzioni enormi.
La reazione delle Case
Un’auto moderna ha quasi più bisogno di chip e semiconduttori che di benzina. Sensori, infotainment, connessioni varie, Gps, strumentazione digitale, centraline per i climatizzatori, per i sedili con massaggio, per gli assistenti alla guida e la sicurezza: i dispositivi a bordo di una vettura che hanno bisogno del loro piccolo “cervello elettronico” non si contano più.
Di fronte alla crisi, le Case hanno cercato di non restare a guardare. Le contromisure prese sono state diverse e, a volte, molto fantasiose. La prima contromisura è stata la riduzione dell’orario di lavoro negli stabilimenti. L'hanno fatto tutti, da Mercedes a Jaguar Land Rover passando per Stellantis, Volkswagen, Renault, Toyota (che pure in un primo momento era riuscita a fare scorta) e chi più ne ha più ne metta. Di questa settimana la notizia che BMW ha 10.000 auto finite ma senza chip. In parecchi casi gli stabilimenti sono stati fermati del tutto.
Ma per uscire da questa situazione si sta provando qualsiasi cosa. Peugeot ha reintrodotto su certi modelli i cruscotti analogici al posto di quelli digitali, praticando anche riduzioni sui prezzi di vendita. Tesla ha iniziato a valutare la possibilità di iniziare a prodursi i chip da sola. Ford vorrebbe convincere la rete vendita a farsi consegnare le auto senza chip e a installarli in concessionaria una volta che saranno disponibili. Insomma, vale tutto pur di non rallentare ulteriormente le consegne, che però, inevitabilmente, si allungano. C’è anche chi taglia gli optional disponibili o le dotazioni che necessitano di chip per funzionare.
Una riconversione complessa
Di fronte alla gravità della crisi – in Europa l’industria dell’auto pesa per quasi il 40% sulla domanda totale dei chip del Vecchio Continente – però, le contromisure in atto non sono sufficienti e i tempi di attesa salgono anche del 50%, arrivando in alcuni casi a 6 o 8 mesi.
È una situazione insostenibile, che non può risolversi nel breve termine. La riconversione del settore per rispondere alla crescente domanda è complicata proprio per la complessità produttiva dei chip e per la presenza di diversi standard, molti dei quali non rispondono alle esigenze del mondo dell’auto. Eppure, a fronte di quello che è uno dei peggiori incubi che le quattro ruote stanno vivendo, si inizia a vedere la luce in fondo al tunnel.
Le contromosse della politica
Azioni dei produttori di chip a parte, anche le istituzioni si stanno muovendo per risolvere la crisi. Perché da una parte, uscire da questa situazione potrà dare un po' di respiro all'economia, e perché dall'altra, muovendosi in anticipo sulla concorrenza, si può provare a stabilire nuovi equilibri, a tutto vantaggio del proprio settore industriale.
Così, già a maggio, sia Usa che la Ue hanno stabilito una propria strategia. Biden, ad esempio, vorrebbe erogare un finanziamento governativo di oltre 50 miliardi di dollari che dovrebbe fare da volano a investimenti per una somma complessiva tre volte più grande, che porterebbe alla costruzione di una decina di nuove fabbriche di semiconduttori.
L'Europa, dal canto proprio, starebbe lavorando per la creazione di un'alleanza dei chip che, sulla scia del modello dell'alleanza per le batterie, dovrebbe permettere ai vari soggetti comunitari che operano nel settore di fare quadrato di fronte alla crisi e trovare il modo di raddoppiare la produzione entro il 2030. Il piano Breton, dal nome del commissario europeo Thierry Breton che lo ha messo a punto, porterebbe l'Ue a produrre un quinto dei microchip al mondo e a sviluppare tecnologie all'avanguardia, come quella dei chip a 2 nanometri appena presentata da IBM.
La ripresa nel 2022
La situazione è ancora estremamente complessa. Le Case continueranno a doversi scontrare con la difficoltà di approvvigionamento dei chip e la produzione sarà rallentata ancora per diversi mesi. Intel crede che non si tornerà alla completa normalità prima del 2023. Altri ritengono che già nel corso del 2022 ci si metterà questo problema alle spalle. In effetti, l’industria dei semiconduttori sta correndo ai ripari.
Texas Instruments, ad esempio, è in procinto di aumentare la produzione, Intel stessa sta mettendo a punto tecnologie che le permetteranno di velocizzare i processi e anche in Asia si sta lavorando per permettere ai costruttori di auto di riprendere i normali ritmi produttivi. E consentirgli così di dover pensare ad affrontare “soltanto” le enormi sfide legate alla transizione energetica.